Centro Studi Riccardo Massa
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A cura di Elena Mauri
All’interno dello scenario attuale in cui la professione pedagogica si sta confrontando con un importante cambiamento – tanto atteso per alcuni, tanto guardato con sospetto e controverso per altri –, ovvero l’introduzione dell’albo professionale, occorre analizzare con occhio clinico il tema del riconoscimento del lavoro pedagogico e della professionalità del pedagogista. In questo crediamo che il nostro Centro debba impegnarsi. L’Area Archivio desidera rileggere, in quest’ottica, il contributo “L’operatore pedagogico. Sapere antico, professionalità nuova”, pubblicato da Riccardo Massa nel 1988 sulla rivista Albero a elica.
In questo breve, ma densissimo, testo viene messo in rilievo come l’«operatore pedagogico» (così veniva nominato) incontri o si scontri con tre questioni fondamentali: (1) la propria collocazione istituzionale e culturale; (2) la centratura della professionalità su una dimensione pubblica piuttosto che su una dimensione individuale; (3) la propria competenza epistemica e pragmatica.
Rispetto alla prima questione, occorre prendere in esame il rapporto tra educazione e società e, più nello specifico – oggi –, il rapporto tra sapere pedagogico istituzionale e cultura dei contesti educativi e sociali. Massa rinviene l’emersione di alcuni dubbi rispetto alla diffusione del ruolo dell’operatore pedagogico: talvolta prevale il riferimento alla figura di “educatore”, altre volte alla figura del “formatore”. Potremmo, allora, interrogarci su quando oggi sentiamo nominare la figura del pedagogista: in quali contesti? da quali persone – altri professionisti o persone comuni?
La seconda questione è, secondo Riccardo Massa, dettata dall’ambiguità motivazionale della «vocazionalità pedagogica», ovvero della mancata laicizzazione della professione pedagogica, in virtù della quale ogni professionalità pedagogica tende – il più delle volte – a focalizzare sul basso le proprie condizioni di legittimità, (ri)trovandosi in una condizione di «miseria» (Massa, 1988, p.72), per cui il professionista dell’educazione «è – in quanto tale – un uomo d’insuccesso sociale» (Ibidem). Forse questi termini non ci piacciono, oggi, forse suonano troppo forti alle nostre orecchie… potremmo, allora, provare tutti a fare questo esercizio: esplicitare che cosa ci restituiscono (in termini di funzioni, di ruolo, di riconoscimento culturale ed economico, etc.) i contesti lavorativi dentro i quali ci muoviamo.
La terza questione rimanda all’esistenza di una competenza pedagogica specifica, di uno sguardo pedagogico, tale per cui il pedagogista possa essere pensato come «nettamente demarcabile e demarcato rispetto allo psicologo e anche a qualunque semplice orientatore scolastico e professionale; e […] come referente di esplicitazione e di conduzione delle richieste sostanziali di intervento autenticamente pedagogico che vengono spesso rivolte, di fatto, a quegli altri operatori, e anche di critica ideologica della pedagogia latente in essi e nei loro ruoli, attraverso un effettivo lavoro di équipe» (Ivi, p.73).
A questo punto, è, a nostro avviso, interessante domandarci quanto queste tre questioni configurino o meno (ancora) oggi un campo di forze in cui pedagogiste e pedagogisti si muovono, esprimendo il proprio sapere professionale ed esercitando la propria professionalità.
Se la linea di fuga dei tre ordini di questioni è «configurare la professionalità dell’operatore pedagogico come specialista altamente retribuito, nell’ambito d’un ruolo formalizzato di riconosciuto prestigio sociale» (Ivi, p.72), l’istituzione dell’albo dei pedagogisti – peraltro, è bene sottolinearlo, come albo distinto rispetto a quello degli educatori professionali – va in questa direzione?
È, l’albo professionale, il primo passo per «concretare la figura dell’operatore pedagogico in riferimento ad un setting, ad un training e ad un dispositivo specificamente pedagogici» (Ivi, p.73)?
File | Azione |
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1988 - L’operatore pedagogico. Sapere antico professionalità nuova.pdf | Download |
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